Post corposo, preso da Alamut, un'accozzaglia di scritti indegna di essere definita "romanzo" che scrivo quando sono preso da quella cosa che definirei ispirazione se i risultati corrispondessero poi effettivamente a qualcosa di diverso dalla modalità di scrittura detta "fai a pezzi il vocabolario, metti gli stralci in un sacchetto, pesca e ricopia, inserendo ogni tanto qualche parolaccia per risultare alternativo e fuori dagli schemi".
Ho voluto metterlo perché è, in un certo senso, una riflessione sull'amore, sulla fiducia, sull'egoismo, temi che mi ossessiano ultimamente (e vorrei vedere :) ).
Se avete pazienza leggetelo e capirete molte cose, prima di tutto il fatto che ho un ego talmente smisurato che il mio corpo sta cercando di adattarvicisi, a tal punto che ringrazio Berlusconi di aver tolto l'Ici. Naturalmente scherzo: non ringrazierei mai Silvio "1816" Berlusconi per niente, neanche se arrivasse a fare cose tanto immonde da costringere la Sinistra a comportarsi come se fosse un gruppo di sinistra e non una succursale del Partito della Libertà Condizionali.
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La voce metallica del cane che batte a vuoto sul percussore è l'unico suono che si sente nella stanza prima che le bestemmie e gli insulti inizino a risuonare nelle sue orecchie interrompendo il celestiale silenzio, illusione che tutto fosse finito. È anche l'unica voce amica che riesce a sentire da tanto, troppo tempo. Una voce che gli promette e si tira indietro nello spazio di un battito di ciglia. Non delle sue. Tiene gli occhi chiusi sempre, quando è il momento. Non per paura, né per scaramanzia. Vuole solo godersi l'istante. Chiude gli occhi come fa mentre eiacula, e, allo stesso modo del dopo-orgasmo, si sente malinconico quando tutto è finito. Omne animal triste post coitum.
Ecco Ivan. Sulla sua testa la bocca di lei che gli promette di farlo suo, interamente suo, per l'eternità, ma mente. Come tutte le donne mente. Ivan tira il grilletto e lei gli si nega ancora una volta. Gli schiocca sulla tempia sinistra un bacio vacuo senza significato, anche se per lui è tutto ciò per cui val la pena vivere, il confine fra essere e non essere (concetto svilito dalla replica parodiante di pappagalli con voce impostata in calzamaglia contenitiva). L'istante esatto in cui Ivan potrebbe non essere più Ivan, ma un cadavere riverso sul pavimento mentre l'attore che lo interpretava esce di scena senza fischi né applausi, il sipario eternamente squarciato che non cala solo per un personaggio che viene inghiottito dalle quinte oscure di ciò che è inevitabilmente oltre.
Gli epiteti offensivi che gli vengono rivolti rompono la magia dell'attimo, e lui apre gli occhi. La luce della lampadina spartana gli ferisce gli occhi, e gli ci vuole un po' per mettere a fuoco il pot-pourri di canaglie che lo attorniano, l'insulso pubblico che s'illude di essere importante quando l'attore potrebbe continuare anche da solo. Il pingue Sartòr e il figlio adottivo al suo fianco non mancano mai. L'effeminata checca che rifiuta di non essere eterosessuale ma che, Ivan ci scommetterebbe (e sogghigna per l'ironia dell'inversione di ruoli), coita contro natura coll'imberbe scudiero che si porta appresso e glielo succhia mentre la moglie di Sartòr è fuori a fare spese. Ivan lo legge nello sguardo mesto e sempre più spento dell'adolescente: paura, vergogna, disgusto di sé e del patrigno, senso di colpa verso sua madre. E la lussuria con cui guarda la rivoltella di Ivan, la bramosia con cui vorrebbe afferrarla e prenderle la canna in bocca, oggetto sessuale di ermafrodita perfezione, e accogliere il suo seme rovente e liberatorio. Ma Ivan lo minaccia aggrottando le sopracciglia, ché il suo amore non potrebbe trovar la felicità in altre mani.
Quasi sempre di fronte a Ivan siede il Generale. Ha l'aspetto che uno si aspetterebbe da un generale. Sovrappeso, espressione arcigna, canuto. Guarda Ivan ogni volta con un po' più di rabbia. Le prime volte sembrava essere abbastanza distaccato, poi però aveva cominciato a indispettirsi della fortuna sfacciata di Ivan. Gli si legge in faccia che lo vedrebbe volentieri davanti a un plotone d'esecuzione, lui con la sciabola alzata che sardonico incrocia lo sguardo di Ivan che si piscia addosso per il terrore. Ha una bramosia di veder la morte di qualcuno. Ivan lo sente a pelle che è così. A volte gli fa così pena che vorrebbe premere il grilletto più volte finché... ma non funziona così. Il suo rapporto con Lei si basa su regole precise, e il tradimento è fuori questione. Il rispetto e la lealtà prima di tutto. E su questo sarebbe d'accordo anche il Generale che, en passant, in realtà possiede solo una catena di piccoli supermercati e forse non ha mai svolto il servizio militare in vita sua.
Quasi invisibile, l'Impaziente. Ivan non sa quale sia il suo vero nome, e sa che se anche lo sapesse lo dimenticherebbe subito per quanto la sua faccia è insignificante. Forse, di volta in volta, non è neanche la stessa persona: è un'idea di persona. Magrissimo, quasi scheletrico, barba incolta e pochi capelli sul cranio spropositato. Respira pesantemente e ogni tanto (troppo spesso, in verità) tira su col naso. Inizia a sudare non appena il revolver viene preso. Comincia ad agitarsi quando viene caricato con la pallottola. Si schiarisce la gola quando Ivan fa girare il tamburo, e a volte lo fa girare più volte per spazientirlo ancora di più. I suoi occhietti seguono nervosi ogni gesto di Ivan. Ogni tanto tossisce, al che Ivan si blocca e lo squadra infastidito. Ciò gli provoca ancora più pressione e tossisce ancora, e Ivan posa la pistola e lo guarda, attendendo che la finisca. Lo fa solo perché lo diverte vederlo a disagio, e fra tutti è quello che gli sta più simpatico, nonostante sia più compassione che vera affinità. Poco prima di poggiare la canna della pistola alla tempia o nella bocca, l'Impaziente inizia a sgranocchiare le unghie della mano destra, mentre con la sinistra stringe il piano del tavolo. Quando apre gli occhi dopo aver premuto il grilletto, Ivan vede sul suo volto un sorriso beota che sospira di sollievo, e si chiede perché partecipi a tutto questo se per lui è un'esperienza più traumatizzante che per Ivan stesso.
Poi il gregge variabile. Scommettitori di vario genere che non hanno alcuna particolarità che li distingua e che frequentano saltuariamente l'evento, forse una volta sola, forse sempre, ma valli a riconoscere. Papponi che ammazzano il tempo aspettando di incassare, ex-grassatori promossi a boss di quartiere, rispettabili imprenditori annoiati, qualche volto noto a cui i festini di transessuali e cocaina sono venuti a noia.
Rencov gli strappa dalla mano la rivoltella con violenza interrompendo le sue riflessioni. Preme il grilletto altre tre volte puntando una bottiglia vuota, finché non arriva al proiettile e il vetro esplode. Si gira a guardare gli ospiti e ride sguaiatamente. Fa sempre così: dimostra che non c'è alcun trucco e poi sbeffeggia i perdenti.
Rencov Samuel Tarshinov, altresì detto l'Organizzatore, come viene conosciuto nel giro. Il gusto delle cerchie ristrette sono i soprannomi e il gergo, non ciò che si fa. Ivan ad esempio è l'Immortale. Sono ormai 5 anni che ogni sera, esclusi brevi periodi di riposo, si getta nella roulette con gli astanti che sperano che la pallottola si fermi sul numero e il croupier che si frega le mani perché da un lustro non paga gli scommettitori che nel frattempo, a causa della leggenda di Ivan, sono aumentati. A volte sono così numerosi che Rencov organizza due turni serali, con una pausa di mezz'ora. Questa sera è doppio giro.
Rencov fa uscire tutti, anche chi deve partecipare al secondo turno.
“Al prossimo giro ti sveniamo più della volta del Precoce”, lo deride il Generale.
Rencov, al ricordo, ride a denti stretti. Il primo giorno di un nuovo Giocatore è quello che vede presente la quasi totalità degli aficionados del gioco. Conoscere il nuovo disgraziato è una botta emozionale tale che tutti rimandano i propri impegni pur di assistervi. Spesso Rencov mette insieme più soldi durante il debutto che in tutte le repliche del Giocatore di turno. Il debutto è l'occasione in cui gli habitué puntano forte e in tanti, e spesso rilanciano anche quando teoricamente non si potrebbe puntare. Ma Rencov fa un'eccezione e raccoglie le scommesse. Solo per il debutto, naturalmente. Perché nessuno è mai morto al debutto. Nessuno. Tranne il Precoce. Il Precoce era un giovincello disperato che aveva deciso di non avere più niente per cui vivere dopo che la ragazza lo aveva mollato. Sembrava il tipico sfigato bidimensionale dei film scolastici. Talmente sfigato che morì al primo giro. Rencov lo guardò allibito. Non aveva neanche i soldi per pagare tutti gli scommettitori. Dovette far loro credito per i giri successivi finché i debiti non furono estinti. E il Precoce entrò nella leggenda del gioco per due motivi: essere stato l'unico Giocatore ad aver cannato al debutto e ad aver ricevuto il proprio soprannome post-mortem. Rencov restò tutta la sera a prendere a calci il cadavere del Precoce, ma non provò nessuna soddisfazione. Durante la notte chiamò la ex-ragazza del Precoce usando il suo cellulare e le disse che il suo ex aveva dei problemi di debiti di gioco e che doveva precipitarsi a un certo indirizzo altrimenti lo avrebbero gambizzato. Rencov la violentò ripetutamente da dietro costringendola a guardare il corpo del Precoce e infine l'ammazzò sbattendole la testa contro il cranio del cadavere. Questo gli diede un minimo di soddisfazione.
Rencov accompagna gli ultimi alla porta e poi guarda minaccioso Ivan, come a ordinargli di non morire. Poi borbotta qualcosa a Sonja, forse che va a cagare o qualche altra amena occupazione, ed entra nel bagno.
Sonja resta sola con Ivan e si guardano in silenzio. Il Giocatore e la moglie dell'Organizzatore, come nei peggiori romanzetti rosa. Sonja gli sorride affranta, e gli manda un bacio muto sovrapposto a un peto rumoroso di Rencov, e Ivan ride per la perfetta sincronia dell'involontario doppiaggio.
Sono quattro anni che Ivan e Sonja scopano mentre Rencov ronfa o è fuori impegnato in un'altra delle sue attività filantropiche. Le prime volte Sonja aveva dei sensi di colpa per le sue infedeltà. Poi giunse a pensare che era ciò che quella bestia di suo marito meritava. Infine si ritrovò ad essere completamente persa in Ivan. Ivan, d'altro canto, le prime volte lo faceva solo per il gusto di scopare. Poi passò a pensare che forse tali amplessi gli arrecavano grande piacere. Alla fine giunse alla conclusione che il sesso lo dilettava enormemente.
Sonja gli si avvicina e lo bacia appassionatamente, ma il rumore dello sciacquone la fa sobbalzare e indietreggia gettando sguardi timorosi in direzione della porta della toilette. Ivan pensa che sia stata fortunata che suo marito abbia deciso, per una volta, di essere civile e di non permettere che nuove forme di vita si originino dal proprio maleodorante humus, ed è con il sorriso nato da questa riflessione che lo trova Rencov quando esce dal bagno.
“Cosa cazzo c'hai da ridere, tu?”, gli urla.
Ivan sostiene il suo sguardo sorridendo.
Rencov tende il braccio destro al di sopra della spalla sinistra mimando un manrovescio con la sua mano callosa. Sbuffa e decide di lasciar perdere borbottando un poco convinto e ancor meno convincente “Fatica sprecata, co' 'sto stronzetto”. La verità è che Ivan lo intimorisce. Il Giocatore più strano che gli sia mai passato per le mani. Anche quello che gli fa guadagnare di più, per carità, ma francamente preferirebbe un'altra catastrofe del Precoce, piuttosto che sopportare ancora la sua imperturbabilità. Vorrebbe almeno una volta vederlo terrorizzato da cosa potrebbe accadere se cannasse. O vederlo piangere durante un crollo nervoso. Tutti i Giocatori avevano periodicamente dei crolli nervosi. Diluvio si metteva a piangere a giorni alterni e a volte sveniva dopo che tirava il grilletto. Quando cannò, prendendosi di sbieco, con la pallottola che entrò dalla tempia destra e uscì dalla fronte, cadde a terra urlando e piangendo come un vitello portato al macello. Bestemmiando Rencov gli prese la rivoltella dalle mani e la caricò con un altro proiettile. S'inginocchio e gl'immobilizzò la testa prendendolo per la sommità del capo e gli sparò nel foro d'uscita dell'altro proiettile. Normalmente avrebbe raccolto le scommesse su quanto tempo ci avrebbe messo a morire, ma Diluvio gli faceva alzare un bel po' di scommesse, vista la gente che veniva per ridere del suo comportamento da cagasotto. Anche Rencov, in fondo, aveva un cuore, e Diluvio, coi suoi 7 mesi, era il Giocatore che gli era durato più a lungo. Fino ad Ivan.
Quel fottuto figlio di puttana di Ivan che non ha paura di lui, e lo deride, e che guarda il culo della sua Sonja, che per fortuna non è una puttana e non lo degna di uno sguardo. Come vorrebbe spappolargli quella sua testa di cazzo e vedere il suo fottuto cervello colare sui piedi. O picchiarlo tanto forte da fargli uscire sangue dalle orecchie e umiliarlo costringendolo a succhiargli il cazzo.
Ma non può permettersi questi pensieri. È un uomo d'affari, prima di tutto, e non può lasciare che una semplice antipatia lo privi dell'affare più dannatamente buono che gli sia mai capitato, anche se si tratta di uno stupido figlio di puttana dalla fortuna sfacciata.
Bussano alla porta. Sonja va ad aprire. Il Generale entra gettando uno sguardo alla sua scollatura, e Rencov si ripromette di spaccargli un braccio, la prossima sera di stanca. Il Generale, ignaro dei pensieri di Rencov, va a sedersi sorridendo all'Organizzatore e mimandogli con la bocca Precoce. Tutte e due le braccia, pensa Rencov, e gli sorride di rimando. Soddisfatto che la sua battuta sia stata apprezzata, il Generale siede al solito posto, riservando una pacca sulla spalla dell'Impaziente, solo per indispettirlo. Ha capito che non gli piace essere toccato ma che è talmente timido o complessato da non osare dire alcunché e che sopporterebbe qualsiasi affronto pur di non doversi confrontare. Sartòr sorride compiaciuto, mentre il ragazzo è rosso in volto e tiene gli occhi bassi. Ivan lo fissa per qualche minuto per farlo sentire osservato. Il ragazzo alza lo sguardo e Ivan intercetta il suo sguardo di vergogna, disagio e rabbia. Ivan sogghigna e gli fa l'occhiolino, trascinando il suo sguardo col proprio verso Sartòr. Un'altra strizzata monoculare e il ragazzo ricomincia a fissare il pavimento. Ma si sente che sbuffa con rapide inspirazioni rabbiose e ancor più celeri espirazioni nervose.
L'Impaziente inizia a tranquillizzarsi, a scrollarsi di dosso il nervosismo del tocco inopportuno dell'estraneo. E così non va bene.
“Generale, sembra quasi che lei si sia fatto un amico. L'ho visto rabbrividire di piacere quando l'ha toccato”, insinua Ivan con tono malizioso, forzando anche un sorrisino complice.
Il Generale si stupisce di averlo sentito parlare, di aver assistito a un atto umano da parte di un essere che per 5 anni aveva mantenuto un distaccato atteggiamento da divinità distante dalle triviali faccende umane. Vederlo ora cadere in un comportamento da spalla compiacente del bulletto di turno lo riempie di letizia più che se fosse appena venuto in faccia su una giapponesina quindicenne con le tette grosse. È il crollo della sua invulnerabilità. In fondo è un uomo come tutti gli altri. Oggi ci rimani secco, figlio di puttana, pensa. Ma gli sorride, perché niente può rovinargli quel momento. E forse è nello spirito dell'ultimo desiderio al condannato a morte che il Generale lo esaudisce. Mette una mano sulla spalla dell'Impaziente e non la toglie più.
“Hai finito di dire stronzate, frocetto?”, lo apostrofa Rencov. Si è innervosito ancora di più. Ivan non parlava mai neanche per le questioni importanti, figurarsi aprire la bocca solo per delle stupidaggini del genere. Col Generale, poi. Il Generale che ride e scherza. Glielo si legge in faccia che pensa che oggi sia la volta buona che Ivan canna e schiatta. Ivan l'Immortale? Morire? No, impossibile. Non di propria mano. Ma di sua mano? Privarsi di un affare così solo perché lo inquieta e perché la notte non riesce a dormire bene ed è sempre più coi nervi a fior di pelle? A cosa gli servono tutti quei soldi se non può goderseli? Sì, ma, d'altro canto, come potrebbe far vivere Sonja come una regina e farsi perdonare se qualche volta alza le mani contro di lei? Ivan è una cornucopia (ma Rencov pensa a un pozzo di soldi, perché non ha idea di cosa sia una cornucopia).
A interrompere i suoi pensieri sente un respiro caldo sul collo e un profumo di erba tagliata di fresco. Sonja, dietro di lui, a scacciare i suoi fantasmi e ossessioni. La donna della sua vita, la sua unica ragione d'esistere, ciò che lo spinge ad andare avanti. La dolce, paziente Sonja, che ha sopportato tutto pur di stargli accanto, solo per amor suo. In quel momento Rencov prende una decisione che va contro tutto quello che gli è stato inculcato fin da piccolo, e promette a se stesso che basta, niente più tradimenti, niente più occhi neri, niente più egoismo. D'ora in poi avrebbe vissuto solo per Sonja. Avrebbe abbandonato tutta questa merda, e sarebbero tornati insieme nel loro paese. Coi soldi che ha fatto, può campare di rendita per il resto della sua vita. Comprerà una grande tenuta terriera dove pianterà ciliegi e pesche e albicocche. E passeggeranno insieme, mano nella mano, e lui spiccherà una pesca rossa e gialla, matura al punto giusto, dal ramo che lei, anche in punta di piedi, non riesce a raggiungere. E lei la morderà coi suoi denti bianchi, e il succo le colerà sul mento e sul collo candido, e bagnerà la sua veste sottile, e la veste umida rivelerà un capezzolo eretto dal suo seno piccolo e sodo, e lui la denuderà, e lì, nell'odore della terra secca che si spacca disidratata al sole, faranno l'amore, e lui sarà dolce e la rispetterà come non ha mai fatto, e mentre penetrerà in lei sentirà lei riversarsi in lui come un fiume di lacrime di dolce malinconia e...
Ma il volto di Ivan sarcastico si insinua nei suoi pensieri. Per cosa cazzo sta ridendo quella checca? PER COSA CAZZO STA RIDENDO?
Fanculo al rito, fanculo a quello che penseranno gli scommettitori di lui, fanculo anche a quanto dovrà pagare se sarà suo il proiettile che lo ammazzerà. Prenderà lui, Rencov, il revolver, e sarà lui a premere il grilletto. E se si salva, premerà e premerà e premerà finché non sarà ai suoi piedi, a sanguinare. E fanculo, forse per festeggiare non ritirerà neanche le scommesse. Si chiude baracca in fondo, no? Un regalo ai fedeli clienti.
Ed è in quel preciso momento, nel momento in cui prende la propria vita per le palle, deciso a cambiarla e rovesciarla come un calzino lurido per darle una decisa strigliata con la cenere della sua risolutezza, nel momento esatto in cui rinasce e la sua mente si spalanca, librandosi e liberandosi da tutti i cattivi insegnamenti dei suoi pessimi maestri di vita, è in quel momento che sente sul collo l'acciaio affilato, il respiro di Sonja e il suo profumo di erba tagliata di fresco. E un'altra rivelazione, meno importante, più terrena, non spirituale, gli si piazza davanti, a braccia incrociate, gambe allargate e un'espressione di derisione.
Ivan si rigira la pistola fra le mani, valutandone il peso. Dà un'occhiata in giro, e nessuno sa dire se sia ironica, triste, malinconica, fatalista o cosa. Punta la pistola verso il gregge degli indistinguibili e agita la canna in direzione della porta. Sono immobilizzati dallo sconcerto, come un coniglio sorpreso dai fari di un'automobile che sta per travolgerli.
“Questa volta non sparerà a vuoto”, li informa Ivan con lo stesso tono di un tipo che incontri in ascensore da 20 anni ogni mattina alle 7.45 e che immancabilmente esordisce con “bella giornata, eh?”, anche se fuori cadono chicchi di grandine grandi quanto un iceberg (parte sotto la superficie del mare compresa). Capita l'antifona, gli indistinguibili si disperdono. Sartòr fa per alzarsi, ma Ivan, sempre con la canna della pistola, fa un gesto dall'alto verso il basso, intimandogli di restare seduto.
“Voi quattro restate qui”, enuncia Ivan col medesimo tono atono di poco prima. Poi si volta verso Rencov, sostiene il suo sguardo e poi fissa la sua attenzione verso l'arma che ha in mano. Nello scantinato il silenzio diventa quasi assordante e sicuramente fastidioso, finché Ivan non decide che è ora di interromperlo.
“Il problema, Rencov, è che mi sono stufato. Il gioco non mi diverte più”, dice. Rencov deglutisce e la pelle in corrispondenza del pomo d'adamo striscia sulla lama del coltello da cucina che Sonja avvicina sempre di più alla gola del marito.
Ivan si alza e spinge la sedia sotto il tavolo. Si dirige deciso verso l'angolo dello scantinato in cui Rencov tiene gli attrezzi con cui fa la sua ginnastica mattutina. Appesa a un chiodo arrugginito delle dimensioni di un indice, pende la corda per saltare. Ivan la strattona, facendo cadere il chiodo che tintinna sul pavimento.
Compie il cammino inverso e tende la corda verso il figlio adottivo di Sartòr, ancora in piedi alle spalle del patrigno che suda ed emette brevi squittii. Il ragazzo esita, poi la prende confuso.
“Sartòr, hai niente di cui chiedere perdono?”, gli chiede. Sartòr si gira verso il Generale, ancora la mano sulla spalla dell'Impaziente che stringe sempre più nervoso il piano del tavolo. Il Generale ha una faccia smarrita, e il volto non è più incorniciato da quel bel sorriso festoso che faceva mostra di sé solo pochi minuti prima.
“Io... non...”, balbetta Sartòr, facendosi piccolo piccolo per quanto la sua mole glielo permette. “Io... sono una brava persona. Non ho mai fatto del male a nessuno. Senti, Immortale, ho una famiglia... lasciami andare... ti darò tanti soldi che neanche te li immagini...”, promette con un sorriso tremolante. Ivan lo osserva come un entomologo entomofobo coprofilo guarderebbe uno scarabeo stercorario, e Sartòr perde ogni speranza che qualsiasi tentativo di corromperlo possa mai giungere a buon fine. “È perché sono stato qui a vederti rischiare di morire senza fare niente? Senti, non era un fatto personale. Poi l'hai voluto tu. Rencov non costringe nessuno. Vero, Rencov?”.
Ma Rencov tace. È vero, non ha mai costretto nessuno. È solo che rispondere non cambierebbe niente: non si tratta di questo. E l'unico che non l'ha ancora capito è Sartòr che continua a perorare la sua causa come se una qualsiasi affermazione potesse mai volgere la situazione a suo favore.
“Ho una famiglia a cui provvedere, Ivan”. Il tono di Sartòr è diventato supplichevole, ed è prossimo alle lacrime, ma ciò non fa che indispettire Ivan. Ma Sartòr è disperato, e pronuncerebbe qualsiasi menzogna pur di salvarsi.
“Ho una famiglia a cui provvedere”, ripete.
“E la tua famiglia provvederà a te” è la sentenza di Ivan. E il ragazzo arrotola le due estremità della corda alle mani, e stringe finché non sono violacee. Non sa perché tutto gli sembri distante, non sa perché ha la sensazione che tutto avvenga su uno schermo mentre lui è intento solo a osservare, non sa perché all'improvviso si sente di dover sorridere mostrando minaccioso i denti. Non sa cosa stia facendo, non sa perché lo stia facendo, né sa come ha fatto a capire ciò che Ivan voleva che facesse. Sa solo che ha una grande voglia di farlo. E lo fa.
Passa la corda sul collo di Sartòr e stringe. Sartòr si avvinghia alla corda cercando di liberarsi ma non ci riesce. Sta soffocando e le sue gambe iniziano a scalciare, indipendenti dalla sua volontà. Rovescia il tavolo che si corica di lato.
Non appena l'Impaziente si sente sfuggire il piano del tavolo dalla mano sinistra, questa si chiude in un pugno e, torcendo il busto freneticamente, impatta sul naso del Generale. Il Generale, per la sorpresa e per il colpo sta per cadere all'indietro, ma l'Impaziente lo intercetta nella sua caduta prendendolo per i bianchi capelli radi e sbatte la sua testa sullo spigolo del tavolo. Il cranio del Generale fa un rumore simile a quello di un caco maturo che viene lasciato indolentemente cadere dal secondo piano. L'Impaziente non è evidentemente soddisfatto della resa sonora, perché continua a ripetere lo stesso gesto. Chiunque potrebbe notare l'ironia insita nella bizzarra simmetria antitetica dei due gesti, il ragazzo che strattona il patrigno verso di sé e l'Impaziente che spinge il Generale lontano; chiunque eccetto, beninteso, il Generale e Sartòr.
Sartòr è ormai bluastro e scalcia debolmente via i suoi ultimi attimi di vita, finché la totale immobilità dei suoi arti inferiori non sembra risvegliare il ragazzo dalla sua trance da violenza. Allenta la corda. I piedi anteriori della sedia tornano a poggiare entrambi a terra. Con gesti lenti srotola la corda dalle mani e la lascia. Il corpo di Sartòr, non più trattenuto, cade in avanti trascinando con sé la corda, sbatte sul tavolo che compie un quarto di giro e cade con la superficie del piano sul pavimento. L'Impaziente, non trovando più una superficie solida su cui sbattere la testa semi-spappolata del Generale, crolla a terra per il suo stesso impeto, trascinando con sé il corpo; in un gesto istintivo lo tira a sé e si ritrovano abbracciati come due amanti mendaci, la passione che rifiuta di vedere la frigidità che si nasconde.
A danze finite, il ragazzo e l'Impaziente sono sconvolti. Non capiscono cosa hanno fatto e per quale motivo. L'Impaziente rimane a terra abbracciato al Generale e lo stringe e lo bacia sulla testa, e il suono dei suoi baci sul composto di sangue, carne maciullata e materia grigia è stranamente simile a quello che emetteva la testa ogni volta che colpiva il tavolo. Il ragazzo invece si limita ad osservarsi le mani, ma è dubbio se lo faccia chiedendosi cosa mai abbia fatto o semplicemente perché stenta a credere al colorito che hanno assunto.
“Tu sei un demone”, dice Rencov. Sputa a terra protendendo la testa verso destra, incurante del coltello che gli procura una leggera ferita. “Tu hai ingannato la mia Sonja e l'hai fatta diventare una marionetta nelle tue mani”, lo accusa, e nel suo tono c'è una certa solennità, come se stesse recitando un ruolo prestabilito, come se non fosse più il solito, rozzo Rencov, come se la situazione e il momento richiedessero da parte sua la personificazione di un paradigma. Un rito divinizzato dalla ripetizione, cristallizzato da non poter essere mutato dai singoli attanti che vi prendono parte, insignificanti scorie nella trama del tempo, singole parti dell'eterno schema a frattali che determina inesorabilmente il tutto.
È Rencov stesso, per primo, a trovare quantomeno singolare ciò che esce dalle sue labbra, e strana la sua passività nella situazione. D'altronde non vi era forse una forzatura nella sua redenzione pochi istanti prima che la situazione precipitasse in tal modo, mutando completamente i rapporti fra gli attori in scena? Non sembrava l'opera di uno scrittore troppo incapace per dare una verosimiglianza a tutto l'atto? Forse che lo Scrittore non sia così onnipotente come si crede? O forse che non esista affatto un Demiurgo scrivente che plasmi l'universo? E se non esiste e tutto questo è frutto del Caos, da dove gli vengono tali pensieri? O forse il Caos dà una forma apparentemente guidata dal disordine, ma che risulterebbe ordinata in frattali ricorsivi se solo ci si allontanasse dal tutto, invece di viverci all'interno, come un labirinto, che genera confusione in chi lo attraversa ma che risulta chiaramente percorribile da chi ha la possibilità di osservarlo dall'alto? E tutto questo corso di pensieri non è esso stesso a prima vista caotico ma sviluppantesi sempre tramite uno schema a frattali? Ciò non significa che potrebbe continuare all'infinito, spiralizzandosi e replicandosi e ripetendosi, un vortice in cui ogni singolo refolo, per quanto distinguibile dagli altri, genera altri vortici i cui refoli producono altri vortici i cui...
Sonja spinge la punta del coltello nel lato sinistro del collo di ciò che presto sarebbe stato il suo defunto marito, poi passa l'intera lama su tutta la sua gola. Schizzi di sangue di un rosso vivo attraversano l'aere come un gioco pirotecnico piuttosto macabro ma pur sempre spettacolare. Rencov mette le mani al collo per fermare i fiotti di sangue, più perché ci si aspetta che lo faccia che per reale illusione di potersi ancora salvare, compie alcuni passi incerti solo per crollare a terra pochi metri più avanti, svuotato di ogni essenza che possa definirlo quale Rencov piuttosto che come un cadavere di razza caucasica qualsiasi. Forse si muove ancora un po' mentre è a terra, forse no; dipende dall'osservatore, come sempre.
Sonja aspetta qualche secondo, poi gli sputa addosso con faccia disgustata, guardandolo con l'odio represso, finalmente libero di essere espresso. Non dovrà più vivere con quel figlio di puttana, sopportarlo, recitare la parte della mogliettina, succhiargli il suo coso salato di sudore quando lui si sveglia. Ivan è la sua vita, ora. Prenderanno i soldi di Rencov e si trasferiranno. Dove non importa, basta che siano insieme, perché Ivan è la sua forza. Senza Ivan avrebbe mai avuto il coraggio di fare tutto quello? Certo non si aspettava che sarebbe successo anche il resto, gli omicidi di Sartòr e del Generale. E di sicuro non era una cosa che Ivan aveva pianificato... gliel'avrebbe detto, in caso contrario, giusto? Giusto?
Alza la testa lentamente, molto lentamente, perché vorrebbe essere rassicurata dal volto gentile e sorridente di Ivan, è la sua illusione, ma sa già quale immagine troverà davanti a sé.
Ivan spiana la pistola con braccio teso. Sonja non è spaventata né si sente tradita. È solo stanca, dell'avvilita stanchezza che giunge quando uno sforzo necessario è terminato. L'attore consumato dal ruolo che recita gli ultimi grevi minuti dell'ultima scena dell'ultimo atto dell'ultima replica. A questo punto, vorrebbe perlomeno che Ivan le dicesse di averla amata sul serio. Morirebbe con meno mestizia. Le basterebbe solo questo.
“Ti amava davvero. Ti amava con tutto se stesso”, dice invece. “E non meritava questo”, aggiunge. “Nessuno merita il tradimento, neanche il traditore”, termina, ma non è del tutto sicuro che le sue parole giungano a lei prima della pallottola che si affretta già per la canna ed esplode, e diventa Sonja pochi istanti prima che Sonja non lo sia più.
Cala il sipario.
Si accendono le luci in sala.
Tutti in piedi, alcuni con gli occhi lucidi, altri con un grosso sorriso di compiacimento stampato sul volto.
Per la maggior parte sono applausi, ma non manca qualche fischio.
Ma il dissenso è inevitabile quanto vitale.
O no?